Il riformista è “convinto di operare nella storia, ossia nell’ambito di un «sistema», di cui non intende essere né l’apologeta, né il becchino; ma, nei limiti delle sue possibilità, un componente sollecito ad apportare tutti quei miglioramenti che siano concretabili nell’immediato e non desiderabili in vacuo” (Federico Caffè, in “La solitudine del riformista”, Il Manifesto, 29 gennaio 1982).
Riccardo Sanna (Chief Economist Cgil). Lunga e onorevole è la storia della parola riformismo nella cultura politica italiana. Purtroppo, negli ultimi anni, l’espressione sembra essere stata altrettanto abusata, distorta o svuotata di significato in nome del moderatismo o, addirittura, della subalternità e della conservazione degli interessi costituiti. Anche guardando alla sinistra italiana, storicamente si sono distinte negativamente declinazioni del riformismo iper-istituzionalistiche, in nome della superiorità della politica rispetto alla “questione sociale” (qualcosa che assomiglia a “la società non esiste” di tatcheriana memoria), dunque alla stessa economia, oggi non a caso considerata tecnica del potere e non più scienza sociale, “morale”, come alle origini. Altre correnti riformiste si sono caratterizzate per eccesso di fiducia nel libero mercato, in generale nella libertà degli individui, dimenticando “ragioni e significati della distinzione politica tra destra e sinistra” (cit. N. Bobbio), anche a scapito dell’uguaglianza o, anche solo, dell’equità. Ciò ha portato ad una vera e propria eterogenesi dei fini che ha condotto anche i governi di centrosinistra alle privatizzazioni, alla denormativizzazione, alla decollettivizzazione, alla deregolazione, alla finaziarizzazione, all’austerità. Ma questa è un’altra storia. Non è questo il caso del sindacato …
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CANIGÓ, setmanari independent dels Països Catalans
BRAUN, memòries d’una fàbrica / BRAUN, memorias de una fábrica
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