Pasqual Maragall presidente del partit dels
socialistes de Catalunia (Psc), federato al
Psoe. È stato sindaco di Barcellona dal 1983 al
1988, guidando la città attraverso le grandi trasformazioni
urbanistiche e gli eventi ? come le
olimpiadi del ?92 ? che l?hanno resa una delle
più vivibili capitali europee. Ha guidato il governo
autonomico catalano dalla fine del 2003
al giugno scorso.
Maragall ha una visione dell?Europa che non
si esaurisce nell?asse franco-tedesca, che vede
come un limite, e ritiene che Italia e Spagna debbano
guidare una nuova rotta che costruisca l?Europa
partendo da sud.
«L?Europa ?sostiene ? non è l?asse Parigi-Berlino.
L?Europa si compì con l?abbraccio di francesi
e tedeschi dopo due guerre mondiali. Ma
ora è il momento che Italia e Spagna dicano: ?siamo
qua anche noi!?. Europa non è solo Parigi,
Berlino e Londra e la Banca dell?Est. Bisogna fare
una Banca del Mediterraneo. L?Europa è anche
il Mediterraneo, la relazione con la Turchia,
la Grecia, guardare a quel che accade nel nord
Africa. Non è solo oriente, ma altre cose più importanti
per noi».
ascual Maragall è presidente del Partit dels si intende Spagna e Italia.
Per noi
«Spagna e Italia devono impugnare questa
bandiera: edificare l?Europa a partire dal sud.
La materia irrisolta è questa. Nessuno lo ha fatto
in Europa e io credo che sia importantissimo.
L?Europa che si muove, quella di Rutelli, Zapatero,
Prodi e di Erdogan, speriamo, deve fare questo
».
Un asse italo-spagnolo del quale c?è da chiedersi
se la dirigenza dei due paesi ne condivida
la necessità.
«Il mondo economico sì», secondo Maragall.
«Enel-Endesa, Autostrade-Albertis, sono un
fatto. Io credo che senza l?asse imprenditoriale
Italia-Spagna, l?asse politico Europa-Mediterraneo
sia più difficile».
Episodi accusati di rispondere a necessità politiche
e non del mercato. Accuse che non scompongono
Maragall.
«A parte le lamentele di alcuni ultraliberisti
c?è un asse tra imprese europee. E c?è un interesse
politico a che funzioni perché la politica
ha bisogno di uno sfondo economico. Che
sia liberale, corretto, rispettando la competizione,
ma la politica deve anche curare degli interessi
strategici. Con molta attenzione, perché
non si deve mai dire che l?economia viene sottomessa
alla politica, che si fanno operazioni che
non sono solide economicamente».
Dall?Europa passiamo alla Catalogna, col
Paese Basco, il motore economico del paese e,
con la Galizia, rappresentanti del problema
spagnolo: il rapporto tra le diverse nazionalità
che compongono la Spagna. Che la costituzione
ha affrontato, ma non risolto, fondando il sistema
delle 17 Autonomie nelle quali è diviso
amministrativamente lo Stato spagnolo. Un
tempo i nazionalismi spagnoli pensavano di trovare
una chiave per superarlo nell?Europa delle
città.
«Io ci credo ancora. Con più Europa c?è più
libertà per i poteri locali e le città di manifestare
la loro libertà. Nello spazio europeo le città
possono manifestare più liberamente la loro
competitività. È come un campionato nel quale
le città militano: con le loro squadre, offrendo
i servizi per attrarre convegni, congressi, fiere,
sedi di aziende. Questa assimilazione della
competizione economica nel mondo
politico e cittadino è positivo».
Dopo 23 anni di dominio del nazionalismo
liberal-democristiano di
Convergecia i Uniò (CiU) nel novembre
2003 la sinistra è andata al
potere, affrontando la riforma dello
statuto, le norme che fondano l?autonomia
e ne stabiliscono le competenze
rispetto allo stato. Un passaggio
nel quale il tripartito (Psc, nazionalisti
repubblicani e rossoverdi),
si è impegnato fino alla crisi politica, esaurendosi
nella difficile elaborazione del nuovo testo
? emendato dal parlamento spagnolo, approvato
per referendum dai cittadini catalani e ora in attesa
di ricorso presso il Tribunale costituzionale
? senza rappresentare quella svolta politica attesa
dagli elettori. Ma Maragall, che lasciò la guida
della Generalitat dopo l?approvazione dello
Statuto, forse pagando la farraginosità del processo,
non condivide questa lettura.
«Da un lato avevamo ottenuto quelle che
sembravano le cose più importanti, il riconoscimento
delle competenze, dall?altro lato avevamo
cambiato il contenuto della politica sociale,
della politica urbana e amministrativa con una
devoluzione interna alla Catalogna molto importante
».
Un processo complesso che non ha risolto
il problema.
«Io credo che commettemmo un errore:
progettare la riforma dello statuto anziché una
riforma della costituzione. La riforma della costituzione
è impossibile? Sì, probabilmente,
ma anche quella dello statuto è stata impossibile,
non è approvato, c?è, è vigente ma in forma
provvisoria, c?è un ricorso al Tribunale costituzionale.
Visto col senno di poi valeva la pena
tanto sforzo? 287 articoli, specificare le competenze
di Catalogna una per una in
ogni campo, l?economia, la giustizia…
No, io credo ora che non sia valsa
la pena. Perché è uno statuto che
ancora non è del tutto stabile: è approvato
in Catalogna, è approvato dal
parlamento spagnolo, è dal Senato,
con molte modifiche, ma anche così
c?è un ricorso e passeranno anni.
Forse sarebbe stato meglio concentrarsi
nel cambiamento dell?articolo
2 della costituzione, che crea la figura
delle Autonomie ma non le specifica. Pertanto
le 17 Comunità autonome spagnole non sono
accolte nella costituzione col loro nome, e i loro
limiti, se vuoi. Quello che si dovrebbe fare è
aggiungere nell?articolo due un articolo che nomini
le 17 Autonomie e dica che tre di esse sono
nazionalità storiche: Catalogna, Euskadi e Galizia
».
Viene tratteggiata una Spagna federale.
«Sì, federale differenziale. Perché in Spagna
ci sono nazionalità diverse. Il federalismo spagnolo,
che ha una tradizione, denominava la
Spagna come una nazione di nazioni. Quindi,
tornando al punto, la Spagna è una nazione di
nazioni, la Costituzione non lo dice, deve dirlo
e deve nominarle. La riforma dello Statuto è stata
una maniera indiretta di risolvere questo errore.
Ma è stato tanto complicato che non ne valeva
la pena.
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