Raül Romeva i Rueda

REFLEXIONS PERISCÒPIQUES

Publicat el 8 de juny de 2011

Amici italiani: se sete contro il nucleare, sabato e domenica dovete votare sí

Introduzione in catalano:
dissabte i diumenge tindrà lloc el pol·lèmic referendum a Itàlia en què, entre
d’altres coses sobre la privatització de la gestió de l’aigua o el retorn a l’energia
nuclear. A Itàlia els referendums són derogatius, és a dir, quan hi ha una llei
aprovada, es pregunta si es vol que s’abrogui aquesta llei. És per això que
enlloc del famós No a la nuclear que acostumem a veure en els moviments
antinuclears, a Itàlia la campanya és pel Sí (que implica abrogar la llei que
proposa retornar a la Nuclear). Als antinuclears, a Itàlia, per tant, han de
votar SÍ. Així ho explica en Mario Tozzi, a La Stampa, en un article de fa dos
dies.

 

CHI CI GUADAGNA DAI REFERENDUM

Mario Tozzi da La Stampa
del 6 giugno 2011

Sappiamo veramente su cosa
andiamo a votare fra sette giorni? Al di là dello specifico giuridico dei
quesiti referendari, e prima di dividerci in favorevoli e contrari, la
questione è se sappiamo valutarne esattamente contenuti e conseguenze.
Cominciamo dall’acqua. Andiamo davvero a votare per stabilire se l’acqua
italica perderà il suo carattere pubblico e potrà essere mercificata come altri
beni? La risposta è no, quello che invece succederà è che la gestione dei
servizi idrici avrà una corsia preferenziale per i privati. Ma è invece giusto
domandarsi se questo porterà vantaggi per i cittadini, per l’ambiente e,
infine, per la risorsa acqua in sé.

Oggi l’acqua in Italia
costa circa un euro ogni mille litri, una cifra davvero irrisoria, e viene
garantita alla stragrande maggioranza della popolazione pulita e abbondante,
tanto che, se lasciassimo aperti tutti i rubinetti di casa 24 ore su 24,
l’acqua continuerebbe a esserci servita per tutto il tempo. Per questa ragione
sembra difficile migliorare il servizio idrico: escluso che si possa fornire
acqua colorata o profumata o gassata al rubinetto, per l’utente non ci può
essere alcun vantaggio. I fautori del no sostengono che così si riparerà la
rete degli acquedotti italiani, ridotta a perdere circa 40 litri ogni 100, ma
sembrano ignorare tre fatti: che quell’acqua in gran parte ritorna in falda (e
dunque agli acquedotti), che il vero spreco dell’acqua è nell’agricoltura
(circa il 60% dell’uso, contro meno del 20% di quello potabile) e che nessun
privato si sobbarcherà una spesa che viene valutata cautelativamente attorno a
60-80 miliardi di euro. Sostanzialmente il servizio idrico domestico non può
essere migliorato ed è difficile individuare altri motivi a questa
privatizzazione forzata che non quelli del mero profitto per le imprese, non
del vantaggio per i cittadini: un piccolo guadagno, però costante per decenni,
come la rendita di un affitto. La controprova sta nel fatto che, dovunque in
Italia, la gestione privata ha sollevato le critiche dei cittadini e ha, di
contro, sempre portato un aumento delle tariffe (basta confrontare Agrigento o
Lucca, private, con Milano o Roma, pubbliche; mentre Parigi torna al pubblico
dopo anni di privatizzazione).

Il referendum sull’energia
nucleare può essere letto in questa stessa chiave: il ritorno all’atomo porterà
un vantaggio per i cittadini, per l’ambiente o per il fabbisogno energetico
nazionale? L’incidente di Fukushima dimostra che l’energia nucleare non è
sicura intrinsecamente: dopo tre mesi le perdite radioattive non sono state
ancora fermate e sarà difficile tornare ad abitare in quei luoghi per almeno mezzo
secolo. È vero che anche gli altri impianti di produzione di energia sono
dannosi per la salute e per l’ambiente, ma quando avviene un incidente in una
centrale nucleare sono guai per tutto il pianeta per generazioni (le mutazioni
indotte dall’incidente di Cernobil si trasmettono geneticamente, cosa che non
accadde nemmeno per le bombe atomiche sganciate sul Giappone).

Ma anche il vantaggio per
i cittadini sembra dubbio: già oggi l’energia nucleare è la più cara di tutte,
come dimostrano i dati del dipartimento dell’Energia degli Usa (Doe, 11,15
cent/kWh contro i 9,61 dell’eolico e gli 8,03 del gas, con previsioni di
divaricazione di quelle forbici al 2020: 14,37 contro 11,32 e 8,05
rispettivamente). Inoltre un impianto nucleare Epr 1600 III plus costa fra 8 e
10 miliardi di euro (stima Areva) e non si considerano qui tutti quei costi
che, chissà perché, ci ostiniamo a chiamare «esterni» e che, invece, sono
intrinsecamente connessi ai combustibili geologici (anche il nucleare lo è):
eventuali incidenti, smantellamento (decommissioning) e inertizzazione delle
scorie verranno necessariamente addossati alla collettività (come dimostra il
caso giapponese). In queste condizioni la bolletta costerà di più, non di meno,
soprattutto in un Paese che dovrebbe impiantare ex novo le centrali. Inoltre
l’Italia dovrà importare l’uranio, che prima o poi finirà, esattamente come il
petrolio. E anche per l’ambiente non si vedono vantaggi, perché è vero che si
riducono le emissioni clima alteranti, ma non esiste ancora al mondo nemmeno un
sito per lo stoccaggio definitivo delle scorie. Anche in questo caso il
vantaggio è tutto dei gruppi che costruiranno e gestiranno le centrali, che,
non a caso, si oppongono fieramente al referendum, perché perdono l’occasione
di contrarre un mutuo molto vantaggioso: introiti privatizzati e «perdite» a
carico dello Stato. Al di là dei distinguo ideologici, le questioni acqua e
energia su cui si voterà si riducono a logiche molto più semplici ed è su
quella base che i cittadini possono riappropriarsi di una consapevolezza troppe
volte lasciata in altre mani.

 



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